Scrivere è sempre nascondere qualcosa, in modo che poi venga scoperto.

- Italo Calvino -

Pagine

27.11.14

I sogni di Agostino - La buca degli angeli

Dopo la scuola, Agostino si avviò verso casa da solo, mangiucchiando qualche fetta di mela essiccata. Era l'unica frutta che riuscisse a mangiare. Mentre camminava con un piede davanti all'altro lungo il filare di pioppi che lo conduceva al borgo, qualcosa distrasse i suoi pensieri. C'era una figura rossa che attraversava i campi di granoturco. Era uno svolazzare nel vento del pomeriggio, un movimento fluido e regolare, non troppo veloce. Sgranando gli occhi, Agostino riconobbe lei: Alice. Ora, un bambino della sua età non avrebbe MAI potuto ammettere nemmeno a se stesso di avere un debole per una femmina. Le femmine sono fiocchi e stupidaggini, passano il tempo a ridacchiare in gruppo e Agostino proprio non le capiva. Però lei era strana, aveva qualcosa che le altre bambine non avevano. Però i maschi si interessavano di lucertole e rane, biciclette e motori, battaglie e fortini. Mica di femmine. Stava correndo verso il borgo, ma non stava sulla strada, lei attraversava il campo. Ogni tanto si fermava, chissà a fare cosa. Era tutto intento a guardarla, che non si accorse di aver lasciato la strada e aver preso a camminare sulla terra morbida e riversa del campo. La osservava: aveva una mantellina rossa, una di quelle che non se ne vedono più in giro. Portava dei calzoncini corti in jeans e delle scarpe da ginnastica di tela. Una camicia bianca con dei piccolissimi fiori rossi annodata sul ventre, i capelli biondi spettinati, raccolti in una coda che ne lasciava scappare la maggior parte sul viso. Era bella. Molto bella. Alice. Forse avrebbe potuto fare una corsa e raggiungerla, ma si! Avrebbero fatto insieme la strada verso casaaaaaaaaaahhhhhhhhhh!!! Dove era finito? Agostino si tocco la testa, le braccia. Era tutto intero. Si guardò intorno e non vide nulla. Buio. Lo prese il panico, forse era finito in un pozzo, ma in quel momento alzò lo sguardo e una luce rassicurante gli colpì gli occhi, costretti a chiudersi per riabituarsi a quell'energia positiva. Quando li riaprì, un cielo turchino lo sovrastava e delle grosse, spumose nuvole bianche come panna attraversavano quello cerchio di cielo che riusciva a scorgere. Era come se fosse caduto in una buca, la cui cima era ornata da un'elegantissima balaustra di marmo bianco, con decori scuri e intagli raffinati. Sforzandosi di vedere meglio, notò che su quella balconata circolare c'era qualcuno. Agostino guardò meglio, ma gli occhi non lo tradivano: sul bordo del balcone, un pavone se ne stava appollaiato tranquillamente, mentre dei bambini gli ridacchiavano attorno, facendo capolino fra i marmi lucidi e lisci. Notò soltanto in un secondo momento che quei bambini erano nudi e... avevano le ali! Erano angioletti giocherelloni, ma con loro c'era anche una donna. Era bellissima. Portava i capelli raccolti sulla nuca, proprio come la principessa del drago e il suo sorriso delicato sembrava irradiare tutta la luce che giungeva fino a lui, in fondo alla buca. Attorno a lei, c'erano le sue damigelle che ridevano scioccamente. Le stava accanto una donna nera e impassibile, che sembrava proteggerla da qualsiasi cosa le fosse intorno. Ad un tratto, la dama gettò lo sguardo su Agostino, che arrossì senza motivo e abbassò la testa nel buio. La dama sembrò preoccuparsi molto e prese a strattonare la donna al suo fianco che, senza scomporsi, scomparve e ricomparì con una corda che calò nella buca. Agostino vi si aggrappò e si sentì trascinare dolcemente verso l'alto, verso la luce. Aprì gli occhi e vide suo padre che lo fissava preoccupato, attorniato da un sacco di altra gente. Gli spiegarono che era inciampato in un vecchio pioppo caduto la notte precedente, a causa del forte vento, e che probabilmente aveva picchiato la testa e perso i sensi. Già. Ma era già la seconda volta quel giorno...
Il suo babbo lo prese per mano e lo riaccompagnò a casa. Mentre camminavano, la mente del babbo si affollò di pensieri... chissà se lo stava crescendo bene, se avesse tutto quello di cui aveva bisogno. L'affetto della sua mamma sicuramente gli mancava e lui non poteva proprio farci nulla. Agostino, come se leggesse i suoi pensieri, lo guardò e gli disse: - Ti voglio bene papà - .

31.10.14

I sogni di Agostino - Il drago e la principessa

Quella mattina, nel libro di storia, Agostino notò un dipinto. Si trattava di una strana rappresentazione, in cui compariva una principessa, un drago e un cavaliere con una lunga lancia. Agostino sentiva la maestra spiegare, ma era come se le sue parole non avessero più significato, era troppo intento a guardare quell'immagine.. Accidenti. Gli era successo di nuovo, si era addormentato in classe. Quando si risveglio, sembrava che nessuno si fosse accorto della sua disattenzione, anche se.. Era come se tutti fossero così.. Lontani. Cercò il suo libro per riprendere il segno e ascoltare almeno un po' della lezione, ma non lo trovò. Persino il banco era sparito! Agostino si guardò attorno e realizzò che attorno a sé c'era una fitta coltre di nubi vaporose, bianche, soffici. Ma dove diavolo si era addormentato?? Mentre si chiedeva tutto questo, sentì un pianto leggerò arrivare al di là delle nuvole. Era una ragazza. Quando le nubi si alzarono, Agostino scorse davanti a sé l'imponente figura del drago. Una spessa e coriacea corazza verde scintillante lo avvolgeva tutto, proteggendolo. Dalle sue narici scure, sbuffava del fumo e i suoi occhi vigili si spostavano in fretta. Agostino si nascose dietro le rocce, ma proprio quando stava studiando una via di fuga, la vide. I suoi capelli ricci e dorati raccolti sul capo. Il profilo esile e delicato, le vesti pregiate, il suo pianto educato, tutto faceva intendere che era una principessa. Non poteva abbandonarla. Agostino afferrò un lungo bastone appuntito e fece per avvicinarsi alla bestia quando, come se uscisse dal nulla, gli si fece accanto un possente cavallo bianco, bardato di rosso. Montò in sella e senza sapere che fare, lo lanciò al galoppo. Il drago li vide e cercò di colpirli con la sua coda. L'abilità del cavaliere e l'agilità del cavallo schivarono il colpo. Proprio quando il drago stava per sferrare un secondo colpo, Agostino gli si avvicinò tanto da poter sentire il fetore del suo alito mortale. Fu allora che, impugnata saldamente la lancia, il cavaliere si abbatté sul mostro, ferendolo mortalmente al centro del suo muso diabolico. "Agostino!" - esclamò la maestra con disappunto. Il bambino si rizzò dritto con sguardo interessato. Sulla sua guancia era rimasto appiccicato il foglio per gli appunti e tutta la classe scoppiò in una fragorosa risata. Lui, accettò il rimprovero e lo scherno dei compagni. Lui aveva sconfitto il drago e loro non potevano saperlo...

7.8.14

Nuovo appuntamento Merenda con l'autore!

Ciao a tutti! Un saluto particolare ai bambini di Introbio che sono venuti ad ascoltare la fiaba a Luglio! Per voi ci sarà una fiaba tutta nuova! Mi raccomando, attenti ai calzini! Vi aspettiamo sabato 23 agosto, speriamo sotto i rami del grande faggio! A presto e buona lettura!

Il Folletto dei Calzini

C’era una volta, all’ombra del Resegone, un piccolo paesino adagiato in una conca verde e fiorita. Le montagne proteggevano la cittadina da tempo: prima dalle scorribande dei popoli del nord, sempre alla ricerca di guai, poi dalle truppe del sultano, avido di potere e desideroso di nuove conquiste. Inoltre, si raccontava che le montagne fossero una protezione magica del Grande Essere Obrun, la divinità degli antichi popoli del posto, contro l’Uragano Zino, uno fra i tanti tentativi del cattivissimo, crudele, spietato Bigione, il potente e malefico mago della Grigna. La lotta tra il Grande Essere Obrun e Bigione era una leggenda che ancora si narrava nelle lunghe sere d’inverno. I nonni raccontano che da piccoli la ascoltavano attorno al fuoco, oppure nelle stalle dove il calore degli animali li riscaldava dal gelo della neve e della tormenta. Oggi capita sempre meno di ascoltare queste storie vecchie, ma alcuni bambini si divertono ancora a sentirle narrare dai propri nonni o animate dai personaggi del teatrino delle marionette. Ad ogni modo, la protezione che le montagne avevano da sempre garantito faceva sì che la gente gli fosse affezionata e ne prendesse cura, pulendone i sentieri, rispettandone l’ambiente , evitandone il degrado e l’abbandono. Gli abitanti del paesino vivevano di ciò che quella terra gli offriva: prati verdi e ricchi di nutrimento per le loro bestie, da cui ricavare un latte buonissimo e fresco ogni giorno, adatto per preparare ottimi formaggi; boschi ricchi di grandi alberi per fabbricare mobili pregiati; una sorgente zampillante con proprietà benefiche da imbottigliare e vendere anche in pianura. Una terra ricca e tranquilla, in cui la vita trascorreva in maniera semplice e i bambini giocavano per le strade in un vociare allegro. Non c’erano pericoli e le battaglie di guardie e ladri venivano disputate vicino alla cascata della Troggia, il prezioso e ambito premio destinato ai vincitori. Ogni bambino del paesello sognava di conquistare la Troggia almeno una volta. Il piccolo Riccardo non era da meno. Riccardo era un bimbo gracile, esile, più piccolo dei suoi compagni. Aveva grandi occhi azzurri e un viso coperto da lentiggini color nocciola. I suoi capelli erano ramati e liscissimi, sottili come fili da cucito. Riccardo portava il nome di un grande re conosciuto per il suo immenso coraggio: Riccardo cuor di leone. La sua mamma aveva scelto questo nome perché il suo cuore era piccino e debole così sperava che potesse diventare forte e robusto, permettendo al piccolo Riccardo di dare prova di tutto il suo coraggio! Date le sue condizioni, Riccardo non poteva uscire a giocare spesso quanto i suoi compagni. I pochi pomeriggi di sole, quando il bosco risultava meno umido del solito, Riccardo aveva il permesso di raggiungere gli altri bambini che, non si dimostravano mai troppo entusiasti di farlo entrare in una squadra. Riccardino, così lo chiamavano tutti, non era troppo veloce nella corsa, si stancava in fretta e risultava perciò un compagno troppo debole. Lui se ne accorgeva e ci provava in tutti i modi a correre più forte che poteva a resistere per fingere di non fare fatica, ma proprio non gli riusciva. Un giorno come tanti altri, Riccardino e compagni si erano ritrovati in paese, per una partecipare al torneo dei rioni che coinvolgeva bambini e adulti in avvincenti e appassionanti partite di calcio. Riccardino era in panchina, ma non aveva mancato per un solo minuto di incitare i suoi compagni, facendo un tifo appassionato. [ L’orologio del campanile segnava già la fine del primo tempo e l’arbitro fischiò la fine. Forse ci sarebbe stato tempo per lui nel secondo tempo della partita. Scesero negli spogliatoi festosamente dato che Emilio, un bambino in villeggiatura con i nonni, aveva segnato il gol del vantaggio. Emilio era forte, atletico, veloce… era proprio tutto quello che Riccardino avrebbe voluto essere. Dopo l’intervallo, ritornarono in campo, anche se il cielo prometteva pioggia a catinelle, viste le grosse nubi dense che si stavano raccogliendo sopra il paesino. Qualche curioso che si era fermato ai bordi del campo per vedere giocare i monelli, si scoraggiò e se ne tornò verso casa prima che quelle nubi scaricassero tutto il loro contenuto. La partita continuò e l’altra squadra cercava in tutti i modi il gol del pareggio, erano ben determinati a segnare e alla fine ci riuscirono. Sembrava una partita del campionato. L’arbitro, un ragazzino, si affannava qua e là per il campo, cercando ogni tanto di dare un morso a una delle merendine che si era infilato nelle tasche. Anche lui non era quel che si dice un bambino agile. Riccardino stava in piedi, ai bordi del campo, senza perdere di vista l’orologio del campanile e cercando di incontrare lo sguardo di Emilio, sperando che lo facesse entrare. Quello se ne stava in mezzo al campo, con una faccia tesa e lo sguardo fisso sul pallone. Non si sarebbe mai sognato di farlo entrare in un momento così delicato. ] Le lancette dell’orologio del campanile fecero il loro giro e scoccò l’ultimo minuto del secondo tempo: 1-1. Le due squadre tornarono negli spogliatoi abbattute e tristi. Il torneo era a scontri diretti, perciò si passava prima ai supplementari e poi ai rigori. Emilio spronò i compagni a darsi da fare, ma nemmeno i supplementari cambiarono la situazione. Si andava ai rigori. Riccardino, nel suo piccolo cuore malconcio, nutriva una speranza. Emilio la frantumò quando nominò i ragazzi che avrebbero calciato i rigori, ma questo non abbatté Riccardino che tifò fino alla fine i suoi compagni, che vinsero e si aggiudicarono così la finale… la finale! Non stavano nella pelle, cominciarono a correre per tutto il campo, abbracciandosi e ridacchiando, buttandosi a terra senza sentire la pioggia battente che aveva iniziato a cadere e usando le pozzanghere per saltarci a piè pari e ridere ancor più a crepapelle. Quando si ritrovarono tutti nello spogliatoio, le docce fumanti riempirono la stanza di vapore e il te caldo servito dall’organizzazione addensò quella nebbiolina, profumandola di limone. Al momento di rivestirsi però, avvenne qualcosa di inaspettato… tutti i calzettoni dei ragazzi erano stati tagliati! Sia sulle punte che sui talloni! Ma che scherzo era questo?? Riccardino, frugando nella sua borsa, notò che il suo paio di calze era intonso. Cercò di nasconderlo, ma Paolone, l’arbitro mangione, quasi soffocandosi mentre trangugiava un pangocciolo, si mise a urlare per far notare che le calze di Riccardino fossero state risparmiate dal taglio! Tutti lo squadrarono con sguardo accusatorio e per contro il piccolo rispose che sarebbe stato sciocco fare quello scherzo evitando le proprie calze, dato che sarebbe stato subito riconosciuto come colpevole. I compagni si accontentarono di quella spiegazione, ma Emilio non sembrava convinto. Tornando a casa, Riccardino incontrò Paolone e sua sorella. Paolone chiese scusa per aver fatto la spia, ma ovviamente la cosa era risultata molto strana e al momento, pensava fosse proprio colpa di Riccardino. Emma, la sorella più piccola di Paolone, ascoltando il discorso dei due bambini concluse che doveva per forza trattarsi del folletto. I due la guardarono increduli. Emma era una bambina intelligentissima e studiosa, non era da lei parlare di assurdità come folletti o altre diavolerie. Eppure, i suoi grandi occhi blu fissarono convinti lo sguardo degli altri due, Emma era perfettamente consapevole di quello che stava dicendo. Propose a Paolone e a Riccardino di avviarsi verso il parco, avrebbe raccontato loro tutta la storia all’ombra del grande Faggio e magari, mangiandosi un bel ghiacciolo al limone. I tre si avviarono verso il chiosco dei gelati e si sedettero sotto i rami del possente albero. Emma si mise davanti a loro. Riccardino arrossì, gli era sempre piaciuta quella bambina. Emma aveva una lunga coda bionda, portata con la riga al centro della sua testolina rotonda. Indossava dei grandi occhiali tondi, che rendevano i suoi occhi blu ancora più grandi e il suo sguardo vispo ancora più attento e vigile. Bravissima a scuola, sapeva sempre tutto ed era una tipa tosta, che sapeva farsi rispettare. Riccardino riuscì a lasciare i suoi pensieri proprio quando Emma stava iniziando a raccontare la storia del folletto. Sembrava che nel tempo ci fossero state diverse manifestazioni della presenza di un essere dispettoso e magico in paese. Non si trattava di sole voci, ma c’erano anche atti ufficiali di denuncia alla guardia, trascrizioni nei registri del parroco e uno o due articoli de Il Giornale di Lecco che trasformava qualche racconto perplesso di alcuni concittadini in un caso di Mistero, coinvolgendo maghi e sensitivi vari. Quello che sembrava accadere da un bel po’, erano episodi come quello dello spogliatoio: erano diverse le famiglie che si ritrovavano con calzini, canotte, sottane tagliuzzate in lungo e in largo. Emma raccontò che questi episodi si ripetevano da anni, anzi, da secoli e tutti venivano spiegati con la presenza di un folletto all’interno della torre del paese. La torre, un’imponente costruzione in piedi da 900 anni, rappresentava un luogo misterioso, nessuno ci entrava volentieri da solo. La torre aveva vegliato sulla cittadina e dopo tanti anni, tutte quelle avventure pesavano sulle sue mura, arricchendole di storie, fantasticherie e leggende. Il folletto, così come veniva descritto, doveva essere alto poco più di una cinquantina di cm; esile e scattante, con capelli verderame, occhi verdi e pupille grandi e scure. Orecchie appuntite e naso all’insù, capace di ogni trucco, dall’invisibilità alla trasformazione in animali. Erano creature create dal Grande Essere Obrun per spiare le cattiverie e i malefici del mago della Grigna. Emma aggiunse che i folletti erano esseri permalosi e bisognava stare molto attenti con loro! i tre amici decisero di dare la caccia a questo folletto e si accordarono per incontrarsi la sera stessa dopo cena, per entrare nella torre. Emma compilò una lista di oggetti utili e diede l’ordine di ritrovarsi allo stesso punto due ore più tardi. E così fu. Era una fresca serata di fine estate, le giornate avevano già preso ad accorciarsi e dopo poco avrebbe fatto buio. Riccardino aveva tribolato non poco per avere il permesso da sua madre per uscire. Mentre stavano raggiungendo i piedi della torre e Paolone sgranocchiava rumorosamente un pacchetto di cracker integrali, Emilio li scorse e sbeffeggiandosi di Riccardino-taglia-calzini per farsi grande con Emma, li seguì cercando di ficcare il naso nei loro programmi. Cercando ancora di attirare l’attenzione di Emma, Emilio fece presente che a Milano frequentava il gruppo scout ed era quindi la persona più adatta per fare da guida, ovunque stessero andando. Emma rispose con tono stizzito che aveva già organizzato il gruppo di spedizione e se lui avesse voluto fare qualcosa, avrebbe potuto fare da apripista, ma solo seguendo le sue indicazioni. Non gli restava che accettare. Aprirono un varco attraverso una finestra a nord, era la più bassa e la più accessibile. All’interno l’aria era umida e fredda e il pavimento era ricoperto da uno strato bagnato e scivoloso, come notò Paolone pochi secondi dall’ingresso, scivolando rovinosamente. I tre bambini avevano torce e lampade frontali per ovviare all’oscurità, come aveva suggerito Emma il pomeriggio, Emilio si costruì una torcia con un vecchio straccio trovato fuori dalla torre, ma nonostante il calore emanato dalla torcia, aveva i brividi! Camminavano in fila indiana uno appiccicato all’altro ed Emma li guidò fino alla stanza del Consiglio in cui, secondo la leggenda, doveva trovarsi il rifugio del folletto. Per attirare la sua attenzione, Emma aveva portato con sé qualche barattolo di pesche sciroppate, sembrava che i folletti ne andassero matti. Giunti alla sala del consiglio, fecero un po’ di luce. Posizionarono i barattoli aperti tutto attorno e infine uno al centro. Poco dopo, una folata di vento spense la torcia di Emilio e inspiegabilmente anche tutti i frontali degli altri. I bambini si raggrupparono e Riccardino subito gridò per puntare lo sguardo di tutti alla loro destra. Incredibile, il folletto esisteva. Quando gli altri cominciavano appena ad abituare i loro occhi al buio, Riccardino si sposò a sinistra per seguire la rotta del goloso folletto, ma questo scomparve. Gli altri bambini non vedevano nulla e quando Riccardino fece notare che il folletto fosse sparito, lo guardarono senza capire. Soltanto lui poteva vederlo. Improvvisamente le lampade si riaccesero e con loro persino la torcia di Emilio riprese a bruciare… ma come era possibile? Emilio era ancora inebetito quando gli altri scoppiarono a ridere: era rimasto in mutande! Emma aggiunse subito che la sua teoria sui tagli degli abiti era corretta e il folletto non mancava di colpire i più maleducati con i suoi dispetti. Per calmare la sua voglia era necessario, oltre a una fornitura di pesche sciroppate, eliminare la causa del suo malumore. E la causa si chiamava Emilio. I folletti sono esseri molto permalosi, ma anche sensibili. Non tollerano le ingiustizie e non sopportano che ci si approfitti delle debolezze altrui, per farsi belli e grandi agli occhi degli altri. Emilio rappresentava tutto questo alla massima potenza. Emma propose di ritrovarsi il giorno dopo, alle 4 in punto ora della merenda, sempre alla torre. Emilio avrebbe dovuto chiedere pubblica ammenda dal punto più alto della torre, in modo che tutti lo sentissero. Solo così il folletto si sarebbe calmato. Lasciarono ancora qualche barattolo e mentre se ne andavano, Riccardino scorse il folletto in un angolo, con la bocca impiastricciata dallo sciroppo che gli fece l’occhiolino con fare compiacente. La mattina successiva, gli amici distribuirono i volantini preparati da Emma in modo da radunare una folla numerosa all’incontro. Riccardino non era il solo ad essere preso in giro da Emilio, lo stesso Paolone era una delle sue vittime. Con loro altri bambini accolsero volentieri l’invito delle scuse ufficiali. Prima delle 4, attorno alla scacchiera gigante sotto la torre c’era già un bel vociare e questo avrebbe già bendisposto il folletto. Emilio rientrò nella torre da solo e mentre raggiungeva la loggia, lasciò qualche barattolo di pesche. Una volta in cima, si affacciò e a voce alta urlò la filastrocca che Emma gli aveva scritto: Buongiorno a tutti, ma soprattutto al folletto A cui chiedo scusa, per evitare lo scherzetto. Lui taglia calzini, canotte e pantaloni Ma le mie prese in giro creano tristi emozioni. A lui e a tutti voi chiedo ammenda Sperando che si risolva la faccenda Dichiaro a tutti di essere pentito E spero pertanto di esser capito. Chiedo al folletto un po’ di rispetto. In cambio pesche con lo sciroppo prometto. Grazie a tutti di avermi ascoltato Adesso per tutti un grande gelato! Il folletto da quel giorno ebbe una fornitura garantita delle sue amate pesche sciroppate ed Emilio i vestiti integri. Tutta la storia servì da lezione ai bambini sbruffoncelli e prepotenti, tanto che ancora oggi le mamme li sgridano ricordando lo scherzetto del folletto dei calzini.

17.3.14

I sogni di Agostino - La mamma e il lanciatore di coltelli

In un paesino disperso fra le dolci colline toscane, abitava Agostino, un bambino di 8 anni vivace e con due grandi occhi verdi che spiccavano sul suo incarnato bruno e olivastro. Il suo papà lavorava come sagrestano nella Parrocchiale del paesino e si occupava anche delle altre 6 chiese, delle 15 cappelline e delle stazioni decorate delle due vie-crucis che il comune di nemmeno 1000 anime vantava. Ovviamente c'era poi il santuario. La mamma di Agostino, invece, era partita già da qualche anno per inseguire il suo sogno: diventare la donna del lanciatore di coltelli, per provare quell'ebrezza adrenalinica che solo la paura può garantire. Le chiacchiere in paese raccontavano altro, ma questa è un'altra storia. Dopo la partenza di Ortensia, questo era il nome della mamma, il papà di Agostino dovette rinunciare al suo sogno e cercare di guadagnarsi da vivere per permettere a lui e al bambino di avere un'esistenza dignitosa. Questo però non era sufficiente per quell'omino laborioso e instancabile, perché in cuor suo restava un desiderio grande: far studiare il suo figliolo e garantirgli un avvenire roseo e di successo, quello che lui non aveva potuto nemmeno rincorrere. La Ortensia gli rubò il cuore quando ancora erano due ragazzini e l'annuncio dell'arrivo di Agostino affrettò i preparativi delle nozze di quei due bambinetti o poco più. Gia' allora la sua attività di pittore passò in secondo piano, perché era necessario un lavoro più redditizio per mantenere la nuova famigliola e così il babbo iniziò a lavorare nella fabbrica di guanti di pelle giù in città. Ogni mattina se ne partiva con la sua bicicletta un po' scassata, con lo zaino in spalla, dove custodiva il suo pranzo e uno dei suoi quaderni per fissare uno dei fiori del cortile, un passero attratto dalle briciole del suo panino o qualsiasi altra scena che colpendo il suo sguardo, avesse potuto tracciare a colpi di carboncino. Il lavoro era pesante, ma non si lamentava mai e quando tornava a casa, aveva sempre un sorriso per la sua Ortensia e energie per i giochi con il suo Agostino. Quando lei se ne andò, la casa e il bambino necessitavano la sua presenza e il lavoro in città lo teneva via troppo tempo. Così, liberatosi il posto di sagrestano, lo accettò con umiltà e riconoscenza. Le sue mansioni erano le più svariate: spazzare, lustrare, raccogliere le offerte, allestire la chiesa a festa, disallestire la chiesa, parare a lutto, portar fiori e ciotole da una cappella all'altra, contar particole, suonar le campane, riporre i lumini, cantare alla Messa ecc... C'era sempre da fare, ma ogni tanto, nella tranquillità delle prime ore della mattina, quando ancora la notte non se n'era andata del tutto, c'era una cosa che il sagrestano amava del suo lavoro. A quell'ora, quando fuori ancora era buio, si concedeva un piccolo lusso che il prevosto non avrebbe mai approvato: sgattaiolando in sagrestia, dal pannello elettrico accendeva le sole luci che illuminavano le grandi pale d'altare, solo quelle, lasciando nel buio completo il resto della Parrocchiale. Tornando in chiesa lo spettacolo era maestoso: le grandi e imponenti tavole dei maestri del '400 risplendevano sotto la luce che ne valorizzava la perfezione e l'uso sapiente del colore. Che delizia per gli occhi di quel povero pittore mancato! Grandi opere tutte per lui. Ogni tanto, quando il parroco era via per qualche pellegrinaggio o in città per le visite in Curia, anche Agostino era invitato a quello spettacolo privato. Lo andava a svegliare da quel suo sonno sereno, quello che solo i bambini possono dormire, per poi caricarselo sulle spalle ancora mezzo addormentato e portalo in chiesa, dove gli svelava i segreti della prospettiva, delle sfumature o i significati delle allegorie. Agostino non ci capiva un granché e non capiva come mai si dovesse andare tanto presto a vedere quelle pitture che se ne stavano tutto il giorno appese al loro posto, senza muovere un passo.