Scrivere è sempre nascondere qualcosa, in modo che poi venga scoperto.

- Italo Calvino -

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31.3.18

Storia familiare di Marzo: San Giovanni Bianco




Il pentolino del latte con il manico bruciacchiato dalla fretta delle mattine d’inverno era appena stato tolto dal fuoco, per consegnarne il nutriente contenuto all’accogliente tazza colorata. Lui era già sulla porta, appoggiato alla maniglia in ottone, con il suo passo pesante e il suo profumo di colonia antica. Dopo le solite domande sulle scartoffie della bottega, esordì: “N’do a Mesa, dopo rie a to la tüsa”.

Il rito perenne della mattina si svolgeva sempre uguale: la porta si apriva in un gesto lento, un “permesso” beffardo e il suo claudicante avanzare per raggiungere l’affaccendarsi giornaliero di mia madre, in modo da accordarsi sulle commissioni della giornata, sulle decisioni grandi da prendere. Non ascoltavo, non capivo, continuando a dedicarmi al mio latte e allo strato di panna da evitare, per non ritrovarlo appiccicato alla superficie liscia dei biscotti. Mi salutava in italiano, con la sua voce gorgogliante, avvisandomi che sarebbe andato a prendere l’auto e che mi avrebbe aspettata di sotto. Con la sufficienza dell’inganno che tutto non sarebbe mai cambiato, annuivo senza entusiasmo, continuando a fissare il mio latte, infranto dall’inzuppare continuo dei biscotti.

C’erano poi i giorni di festa, il tempo inderogabile della Messa e il pranzo in famiglia, nonostante tutte le carte, nonostante tutte le preoccupazioni e le liti affogate nei calici di succo d’uva, come lo chiamava lui. Ricorda di santificare le feste. Nel buio della chiesa, nel bisbiglio del confessionale, questo peccato non fu mai pronunciato dalla sua bocca, di questo, ne sono certa. E santificarle, significava anche tramandarne il valore, raccontarne il senso, viverne la gioia.

Lo stesso fu quel giorno, quando si festeggiava la Spina. La pioggia di marzo avvolgeva le prime cime attorno a casa in soffici nuvole bianche che pesavano sui grandi come blocchi di marmo pregiato. Nei boschi qualche timido germoglio già si schiudeva, trapuntando il tappeto morbido del sottobosco con preziose gemme di Anemoni e Campanelle, Primule e Muscari. A valle, l’erba tornava brillante, riempiendo di nuova energia i prati radi e ingialliti. L’aria frizzante ricordava che l’inverno lasciava con fatica il suo trono e solo il leggero tepore del meriggio lasciava presagire ciò che il bosco aveva già intuito.


Si partiva presto, di buon mattino, per partecipare a Messa prima. I ritardi vezzosi di mia nonna indisponevano la sua impazienza di uomo costantemente attivo, sfogata sul clacson della sua Tipo 1.100 per richiamare all’ordine la compagna di una vita, di investimenti e debiti, di dolore e soddisfazione, di stenti e realizzazione, in quell’equilibrio instabile che sorregge le coppie e che incomprensibile si rivela a chi guarda e giudica. La vecchia strada tortuosa risaliva lungo il fiume ancora spumoso delle nevi dicembrine, solcato dal ponte mozzo, vessillo dell’antica e ormai dimenticata ferrovia. Da lì iniziava la festa, con lumi alle finestre, drappi colorati e fiumane di chiacchiere e pettegolezzi in cammino verso la grande chiesa.

Dopo la Messa e le visite ai parenti, veniva il mio turno. Abbandonava la macchina un po' dove capitava, tanto da non dar fastidio a nessuno, per far visita in chiesa, ancora una volta e prima di tutto il resto. Poi la passeggiata sul viale, con i banchetti carichi di doni e dolciumi, con il profumo dello zucchero filato, delle frittelle e della plastica delle bambole diligentemente sedute in attesa. Ad occhi sgranati, pieni di meraviglia avevo la possibilità di scegliere un dono: cavalli volanti, bambole parlanti, tazzine e stoviglie, passeggini e culle.

E il nonno, che mal gradiva aspettare, per me riscopriva l’attesa, grato e fiero della mia sincera gioia di bambina.

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